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PROLOGUS

Leggetemi, amanti, e riconoscendo qui meco i vostri errori, diventerete o più dotti ad amare o più molto prudenti a fuggire amore. E se leggendo forse qualche sospiro o lacrima vi tiene, siavi conforto poi che altrui ancora pruova quel che voi leggete. Né sia chi stimi conoscere amore, se può tutto leggermi senza qualche poco sospirare; ancora sarà che me leggerà lacrimando. Ma provate, amanti e meco scorgete quanto in voi possa amore. E credo im-parerete qualche utilità a vivere amati e pregiati da' vostri cit-tadini.

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PALLIMACRO. E quanto stimi tu sedere dentro a me grave quel dolore, el quale ancora tanto prema chi da lungi il mira? Quello incendio certo conviene sia pur grandissimo, il quale dentro a più muri inchiuso ancora nuoce a’ prossimi edifici. E non volere, Fi-larco mio, da me ora quello che la fortuna mia tanto iniqua mi vieta ch’io possa. A me conviene avvezzare me stessi a quello in che omai, mentre che io viva, sarà necessario continuo esser citarmi, accio che questo uso in me renda meno aspro quel che ora troppo m’è acerbo. Fuggono i sospiri miei altrove che ivi sem-pre essere ove in me arde il mio dolore; e le mie lacrime cadendo pel seno tornano onde furono premute al cuore. E questo mio do-lore come cosa feroce e troppo mordace, quanto più dentro al mio petto starà inchiuso e in oscuro nascoso, tanto forse dismet-terà suo impeto e rabbia. FILARCO. Io, vedendo te così solo errare fra queste selve tanto afflitto, non potea, Pallimacro mio, non maravigliarmi molto, disiderando sapere onde in questo fronte tuo, sempre in altro tempo lietissimo, ora subito così fosse tanto indizio di superchio dolore. Tu giovine, bello, ricco, gentile, destro, virtuoso, e più che qua-lunque altro di tua età e fortuna amato da tutti e riverito; cogno-scoti prudente, studioso, e in ogni laude e gentilezza tale, che io in me mai saprei desiderare felicità altra che questa, quale a te ave o la fortuna o la virtù tua concesso e acquistato. So quanto me stimi fra tuoi fidatissimi amici. Per questo a me parse o debito o licito richiedere da te che tu a me, come ad amico, imponessi parte di questi tuoi incarchi, quali cosi te atterrano in tristezza

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e miseria. Ed emmi teco intervenuto qual suole chi appresso il fabbro ben dubitava quel ferro fussi inceso, ma per piu certificarsi il prese e molto si cosse la mano. Così a me: ove io pure stimava in te essere qualche non piccola molestia e ardentissima cura d’animo, ora io la sento in questa tua risposta tale ch’ella troppo mi cuoce, e quanto ella sia maggiore, tanto più a te desidero le-varla. Non è solo utile, ma più virtù levarsi dall’animo le cose moleste; e dove il dolore superchi le nostre forze, se gli vuol ce-dere, poiché così solo il dolore si vince fuggendo. E tu stima quanto io giovi non tenere il corso a quella ruota, sotto la quale stia il piede tuo premuto. Ma poiché a te mai fu cosa si cara della quale negassi me esserne, quanto io volessi, participe, qui, se questo tuo dolore a te pare caro, fanne, qual suogli, a me, come ad amico, parte. E se t’è molesto, non dubitare che forse noi due insieme po-tremo quello che tu solo non puoi. Per certo io ti sarò in aiuto o a consiglio da qualche parte utile a vincere l’avversità o a sofferirla. PALLIMACRO. Ohimè, Filarco! Né oro né gemme ne qual si sia grandissima ricchezza possono a’ mortali rilevare il dolore. E resta, Filarco, resta meco fare come a chi cade l'anello di mano in quello pelago, quale quanto più si trassina, più si intorbida e meno si scorge a ritrovarlo. Quanto più cercherai conoscere le mie profonde miserie, tanto più a me rimescolerai l’animo, e meno da me le potrai discernere. Né cercare qui essermi utile in altro che in aiutarmi piagnere, poiché la fortuna così di me dispone. FILARCO. Ahimè, Pallimacro! Non piangere più. Rammentati in quanti modi tu hai altrove vinta la fortuna con animo virile e fortissimo. E che giova tanto dolersi de’ casi avversi se non ad aggravare e fare maggiore quel che troppo ti spiace ? Lascia questo officio alle femmine, le quali solo sanno fingere e lacrimare. Vedi una minima ferita non governata quanto non rado diventi mortale, e qual si sia ferita profonda con aiuto e studio altrui spesso si sani. Io sento in sue avversità gli altri, per onestare il dolore suo e non parere d’animo enervato o femminile, accusare o la iniquità di suoi nimici, o la perfidia di chi si sia, o la ingiuria della for-tuna, e molto avere caro più e più persone sappino quanto e’

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sieno indegni di tanta calamità, e in quel modo sfogano le fiamme della sua incesa ira e cocente dolore. Tu ora da chi ti chiami tu offeso? Quale ingiuria ti sta qui tanto molesta? Quale stimolo te tanto punge ad urtare te stesso con sì ostinato dispiacere e acerbità d'animo? PALLIMACRO. Misero me! Misero mei! Quanto i miei pensieri in me sono gravi, tanto più stanno profondi e meno li posso ri-sollevare. L'onda che surge fuori del sasso, discopre e muove le piccole petroline; le grandi stanno, e quanto maggiore onda so-praggiunge, tanto più si coprono di minuta ghiaia. Tu con questo argumentare, quanto maggiore fiume d'eloquenza effunderai, tanto più mi darai materia da ricoprire quello ch'io né voglio né posso discoprirti. FILARCO. E qual sarà in te cosa da non poterla comunicare con chi t'ama? E quale segreto sarà sì dubbio che non si debbi aprire all'amico? Abbi ch'io potrò riputarti non amico, se tu mo-sterrai poco fidarti di me. Chi non si fida teme essere ingannato, né si può amare colui in cui tu tema essere perfidia. E chi non ama per certo non può essere amato. Il seme dell'amicizia sempre fu amare, onde poi si prende frutto quando pari te senti essere amato. E chi conosce sé, quanto da me ti senti, molto amato, per certo erra non si porgendo amico e parto a chi l'ama. L'amicizia vuole fede e merito. Non manchi in te fede, tu mai da me arai che desi-derare cosa quale io per te possa. Sempre me arai pronto a meritare da te benivolenza e grazia. Ora o piacciati o dispiacciati, io voglio sapere che doglio ti prema. Benché all'infermo dispiaccia quello che lo sana, pure si vuole prima sodisfare alla ragione che al suo giudicio e falso gusto. PALLIMACRO. Io amo, Filarco. Io ardo, Filarco. Io spasimo amando. FILARCO. Ora bene in tutto scorgo io vero quel che si dice, che uomo si trova mai tanto felice, in cui non sia molta e molta parte di miseria. In te ogni cosa concorre a molto adornarti di felicità: patria, parenti, amici, ricchezze, grazia, e fra queste vedi in che modo la fortuna immetta quel che disturbi ogni tua dolce vita e riposo d'animo, e fa in te un minimo pensiere tanto

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essere grave e molesto, che soprapesa, né lascia te gustare parte alcuna della tua grande felicità. E quale errore ti teneva a non volere ch'io sapessi quello che ora gioverà avermi detto? Ma sempre fu il primo comune errore, in quale peccano tutti gli amanti poco prudenti, che quello che e' cercano più occultare, quel medesimo con loro guardi e sospiri a tutti discoprono sempre ove non giova, e dove gioverebbe discoprirsi, ivi fuggono fidarsi di chi loro può essere molto utile. Né so come a chi ama tacendo pare dolce il suo dolore. L'amore in uno giovane non si biasima. Anzi come a' nostri corpi umani sono vaiuoli, rosolie e simili mali comuni tanto e dovuti, che quasi troverai niuno invecchiato sanza averli in sé provati, così pare a me sia all'animo destinata queseta una infermità gravissima certo e molestissima, quale possa niuno quando che sia non sentire. E beato chi pruova le forze d'amore in età giovinile sanza perdere le sue magnifiche imprese e ottimi principiati studi. Beato chi ne' teneri anni provando impara fuggire amore. Sogliono e' vaiuoli più nuocere agli occhi annosi che a' fanciulleschi. Così per lo amore più pare s'accechino le menti ferme e virili che le puerili e leggieri. Una medesima fiamma incende un tronco annoso, quale a pena abronza uno ramo verzoso. E si vuole in questa età amando discoprirsi onesto amante, poiché amore mai fu chi po-tesse tenere ascoso. Né si truova chi cherchi sapere le cose palesi. Vero, ma ciascuno quasi da natura disidera più investigare quello che sia occulto. Né giova in sé d'ogni minima cosa sospettare, però che alle grandi imprese poco nuoceno i piccoli impacci. E benché forse da qualche parte sia da sospettare, mai pero si vuole mostrarsi sospettoso, però che il tuo sospetto insegna sospettare altrui. Sempre fu il sospetto indizio di mala mente. Mostrare d'amare dolce e onesto mai fu nocivo e mai dispiacque, ma mostrarsi vinto da troppo amore sempre fu dannoso, non tanto appresso gli altri suoi, quanto appresso di chi tu ami. Questo costume troverai in ogni femmina, che mai amerà chi troppo ami lei. Stimano le fem-mineo servo, non amante, chi troppo loro stia suggetto, e godono non della molta affezione di chi loro sia troppo ubidiente, ma del servigio, e per non perdere il servigio, mai sofferano lo infelice amante esca di tormento. Anzi per bene averlo suggetto, ogni dì

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